La gioventù che partecipa-Oderzo

29 aprile 2009

I valori, il diritto, la tecnica e il codice


Viviamo in un periodo storico in cui si fa strada l’idea che chiunque, a prescindere da una preparazione tecnica e dall’abilità, possa scrivere leggi e produrre diritto. E ci si dimentica, così, che non è un caso che il diritto sia stato definito “ars boni et aequi” e che i grandi codici siano stati elaborati da qualificati giuristi e non siano nati affatto dall’oggi al domani, senza delle serie discussioni, protratte anche per anni, alle spalle.
Francesco Carnelutti, uno dei più grandi giuristi italiani di sempre, scriveva nel 1950: “ma ciò che intus alit […] è poi il giudizio, che deve pronunciare e, prima, deve avere, almeno quanto il giudice, il legislatore. […] Quelli che lavorano nell’officina giudiziaria, fra altro, sono, secondo il modo di dire del mercato industriale, operai qualificati; ma nessuna qualifica, in senso tecnico, si richiede per diventare legislatore. Giudice non può essere, ma legislatore sì, uno che non s’intende né di diritto né di giustizia”(grassetto mio).
È noto a tutti il problema della carenza di effettività della pena nel nostro Paese. Problema enorme, perché, di fatto, è una negazione del diritto che produce un circolo vizioso.
Infatti, l’incapacità pratica di dare attuazione a principi e regole giuridiche, oltre a svilire la civiltà di cui esse sono permeate e i valori che intendono tutelare, può addirittura arrivare a porsi quale elemento dalle potenzialità criminogene.
Se la giustizia procede lentamente e in modo inefficiente, si penalizzano gli innocenti e si favoriscono i criminali; la società, sentendosi indifesa, perde la fiducia nello Stato e insieme cresce la convinzione che violare la legge paga (non c’è più dissuasione, ma persuasione che delinquere paga); l’illegalità così aumenta e l’incapacità di affrontarla proporzionalmente si aggrava.
Ed è superfluo dire che il grado di civiltà di un Paese si misura sì sulla base di più indici, ma che tra questi riveste indubbia, e forse preminente, importanza proprio il grado di progresso che connota l’ordinamento penale e processualpenale, data l’estrema e primaria importanza dei valori che esso, da sempre e per sua natura, abbraccia.
Eppure oggi, che dell’illuminismo giuridico si sente molto bisogno (per non dire la riscoperta!), si sta marciando contro l’ideale delle norme poche, chiare, logiche, semplici ed efficaci.
La linee giuridiche del nostro tempo seguono questa triplice direzione: 1- destrutturazione; 2-decodificazione; 3- incapacità tecnico-linguistica.
Con la destrutturazione il sistema giuridico, inteso come meccanismo di coerenza e logica, si sfalda; con la decodificazione si creano delle “brecce” riempite di sotto sistemi normativi autonomi che assecondano una tendenza di “fuga dal codice” e alla dispersione; con l’incapacità tecnico-linguistica la comprensibilità e la conoscibilità delle norme diventano cose sempre più ardue.
Ipertrofia e logorrea legislativa, sciatteria tecnico-giuridica, complessità e vaghezza normativa, incomprensibilità, ambiguità, carattere casistico delle leggi, sono, appunto, tutte parole all’ordine del giorno.
Da ogni parte, presso gli studiosi, si levano voci di denuncia del degrado legislativo raggiunto dal nostro ordinamento.
Gli addetti ai lavori e ogni persona che venga a scontrarsi con tale realtà a causa di un processo a suo carico, è in grado di percepire questo disagio.
Ma non serve essere avvocati, imputati o parti processuali per avvertirlo, essendo più che sufficiente sfogliare qualche pagina di un qualsiasi manuale di diritto degno di questo nome.
È questo il tempo della “libertà di parola”, intesa negativamente come “parola alla libertà” che conduce al degrado legislativo attuale e al pericolo di una svolta verso l’anarchia normativa alla quale ci si deve opporre con forza.
Si sta creando (meglio: ri-creando, visto che storicamente tale situazione non è nuova) l’ambiente naturale degli “azzeccagarbugli” di ogni tempo, amanti della litigiosità, alfieri del “dum pendet rendet” e sacerdoti del “et lis (non lux!) perpetua luceat eis”.
È una giungla legislativa che finisce per abbattersi contro l’individuo e farsi sentire particolarmente in quel ramo del diritto che prima e con più forza degli altri, tocca la sua vita, la sua libertà personale, la sua dignità: il diritto penale e processualpenale.
Scrive Ferrua, uno dei più grandi maestri contemporanei del processo penale: “[…] di qui uno stato di caos interpretativo che, da un lato, accresce la discrezionalità del giudice, spesso in grado di motivare con eguale forza persuasiva opposte soluzioni; ma, dall’altro, lascia sospesa una spada di Damocle sulla sorte del processo, per l’imprevedibile esito che le eccezioni che una difesa vigile e zelante sa tempestivamente articolare. Inevitabile a questo punto la forte accentuazione della variabile sociale – oggi anche etnica – in quanto a sopportare il peso dell’incertezza normativa, senza la contropartita dei vantaggi che le sono connessi, restano solo gli imputati sprovvisti di un’adeguata assistenza legale”.
Qualcuno disse che “non conoscere la propria storia è come non essere mai cresciuti”.
Ebbene, negli ultimi anni in Italia siamo cresciuti davvero poco.
Certezza del diritto, norme chiare, coerenti, precise, poche (Voltaire), brevi, concise, che non contengono “né dettagli inutili né espressioni vaghe né troppo elaborati ragionamenti esplicativi”(Montesquieu), sistematicità, completezza: sono questi i concetti che dobbiamo recuperare.
Ma in quale modo?
Credo che per rispondere a questa domanda si debba ragionare su un “come” e un “dove”.
Mi spiego partendo dal secondo, il “dove”, il quale va identificato in quell’insieme di norme chiamato Codice.
Esso non è semplicemente un luogo in cui vengono raccolte delle regole, ma un luogo con certe caratteristiche. E queste caratteristiche sono appunto la sistematicità, la completezza, la coerenza interna, l’unità di linguaggio, la presenza di norme poche, chiare e brevi. Per contro, non è codice un semplice e banale assemblato di regole, oscure e confuse, ricche di rinvii ad altre norme magari mal raccordabili alle prime, che danno luogo ad aporie e lacune.
È dal caos legislativo che emerge la necessità della codificazione. Così è stato e sempre sarà.
Riporto le parole di Gaspare Falsitta, un giurista di diritto tributario tra i più stimati in Italia: “Codificare significa passare dalla giungla legislativa al sistema legislativo, dal caos della vigna di Renzo ad una vigna ben coltivata e senza erbacce, con le viti disposte in ordinati e ben politi filari. Codificazione e creazione del sistema sono così avvinti da nesso strumentale: si codifica allo scopo di espungere il superfluo e il vano e di creare un testo legislativo fondamentale e stabile, che abbracci le norme di una branca del diritto sistematicamente disposte in un tutto organico”.
Il nostro “dove”, perciò, è il codice, inteso come fondamenta di civiltà, di logicità, coerenza e, in definitiva, di certezza del diritto.
Ma se è questa semplicità e unità linguistica, sistematica, geografica che andiamo cercando, dobbiamo ora capire “come” trovare e raggiungere questo luogo.
E la risposta è il giurista.
Come scrissi qualche tempo fa, un’affermazione di onestà intellettuale si impone: il diritto è, ed è sempre stato, cosa per giuristi.
Nessuno si farebbe aggiustare la macchina da un dottore e curare da un meccanico, come nessuno si farebbe costruire la casa da un avvocato e difendere in giudizio da un muratore per la banale ragione che è il meccanico che sa aggiustare la macchina e il dottore che sa come curarvi, così come è il muratore che sa costruire le case e l’avvocato che sa come difendervi in giudizio.
Lo stesso ragionamento vale per il diritto e il giurista.
Tractent fabrilia fabri, questo è il principio, tanto banale quanto negletto, che guida e anima la nostra riflessione.
La formulazione delle norme (e parlo proprio di “formulazione”, prima ancora che di “contenuto”) deve essere affidata a persone che conoscono l’ordinamento legislativo, che conoscono il “sistema di norme” nel suo complesso e che sono dotati di quelle capacità tecnico-linguistiche che permettono loro di intervenire in quel sistema e di scrivere una legge in maniera chiara, semplice e terminologicamente corretta, secondo l’insegnamento illuministico.
Anche il migliore degli intenti se non è tradotto da un legislatore preparato ed attento in buone norme, creerà problemi.
E vale la pena ricordare che una cosa è l’”idea” che sta alla base di una norma e un’altra è la “norma stessa”, perché solo quest’ultima, in definitiva, è legge e regola la società, per quanto l’”idea” sia indubbiamente utile al fine di interpretarla.
Se il principio sopra enunciato, quindi, non diverrà un punto fermo, continuerà a permanere una confusione nei ruoli e nella legislazione.
È utile riportare le parole di Voltaire: “la giurisprudenza si è tanto perfezionata che non c’è una coutume (norma consuetudinaria francese, n.d.a.) che non abbia parecchi commentatori, e tutti, com’è ovvio, di opinione diversa”. E ancora: “il vostro diritto consuetudinario di Parigi è diversamente interpretato da ventiquattro commentari; dunque è ventiquattro volte provato che è mal concepito”.
Ora, è ovvio che, per quanto ben strutturata e scritta, una disposizione è suscettibile di essere interpretata in più modi; perciò quella di Voltaire è un’affermazione ingenua, di un non giurista. Però, ha un fondo di verità non trascurabile ed anzi ben visibile nei voluminosi libri che riempiono le biblioteche giuridiche. “È il peso della cultura”, dirà qualcuno e forse, per una parte, ha ragione. Ma l’altra parte è il peso dell’incompetenza di un legislatore che genera problemi interpretativi, essendo incapace di essere chiaro e di esprimere in maniera univoca la sua volontà o, peggio ancora, di rendersi conto della reale portata di ciò che, con la sua voce, impone alla società.
Chiarito, quindi, che il nostro “come” va identificato con un esperto di diritto, il giurista, vorrei puntualizzare che lo spirito democratico che mi anima non può che delineare, comunque, una soluzione in cui la centralità circa la produzione legislativa è sempre del Parlamento eletto dal popolo che, come dice la Costituzione, è sovrano (art. 1 Cost.).
Lungi da me, perciò, qualsiasi concezione di elitismo pedagogico e per il semplice motivo che, come sempre la storia ci insegna, da lì al paternalismo, o addirittura all’autoritarismo, il passo è terribilmente breve.
Il punto, allora, diventa ridefinire il “principio di legalità”, nel senso, appunto, di affiancare a chi decide le leggi, in quanto eletto dai cittadini, coloro che sanno scriverle e sanno indicare proposte, osservazioni e critiche tecnicamente qualificate.
Ora, se, come ammonito sopra, dobbiamo stare attenti a non dare troppo potere al giurista al fine di scongiurare il pericolo consistente nel farne un legislatore, non dobbiamo nemmeno attribuirne troppo poco, con la conseguenza di svilirne il ruolo.
E perché i tecnici del diritto, o meglio, i migliori tra di essi, possano assumere un peso reale, a mio parere è necessario passare attraverso l’istituzione di un nuovo organo costituzionale, che potrebbe chiamarsi “Consiglio dei giuristi”.
Tale organo collegiale dovrebbe avere poteri esercitabili su richiesta del Parlamento o d’ufficio, consistenti nell’emettere pareri tecnici e proposte di legge, ed essere eletto dai professori universitari delle facoltà di diritto.
Per questa via, riteniamo che si possa realizzare un produttivo gioco di pesi e contrappesi tra potere legislativo e potere dei giuristi all’insegna di una più seria produzione normativa che come beneficiari primi ha i cittadini.
Il Consiglio dei giuristi, come strutturato nella presente proposta, non avrebbe, e coerentemente, un potere decisionale, però bilancerebbe, con il suo apporto, il potere del Parlamento sicuramente da un punto di vista tecnico ma anche, data la sua autorevolezza, dal punto di vista del peso delle scelte fatte dal legislatore sull’opinione pubblica.
Detto questo sotto un profilo tecnico, concludo con una considerazione di ordine pratico e cioè che non si può non tener conto del fatto che ogni norma va immersa in una società, fatta di persone le quali avranno il compito di metterla in pratica.
E perché questo avvenga senza problemi, ci vogliono una certa mentalità e le necessarie risorse umane e materiali.
La migliore delle norme possibili non produrrà mai gli effetti sperati se non è anche introdotta in un mondo che è il migliore dei mondi possibili o, quantomeno, che a questo assomigli.
Diceva Calamandrei: “una nuova legge processuale, anche se rappresenta il non plus ultra della perfezione scientifica, non ha come necessaria conseguenza il miglioramento della giustizia, se non fa i conti colle possibilità pratiche della società nella quale deve operare”.
Innanzitutto, quindi, deve essere dato interiorizzato da tutti, specie da chi giudica, che la ricerca della verità, secondo il metodo che più ragionevolmente conduce ad essa, è lo scopo del processo.
A guidare la mente di legislatori, giuristi e giudici deve essere la logica e l’onestà intellettuale.
Amicus Plato, magis amica veritas”.
E non deve poi sfuggire che ogni azione, per quanto guidata dalla stessa regola, può essere compiuta in modi e con atteggiamenti diversi.
Si scriveva giustamente che “accade spesso che le garanzie del cittadino siano più apparenti che reali, tanto che si deve ritenere presidio della libertà personale più il costume civile degli organi di polizia che non le vere e proprie regole giuridiche”(Pisapia).
Accanto a ciò, va poi considerato che senza risorse materiali non è possibile fare nulla.
Un sistema giudiziario senza investimenti non sarà mai in grado di funzionare in maniera efficiente ed anche questo contribuirà a aumentare il circolo vizioso di cui si parlava all’inizio.
Purtroppo, sappiamo che la scarsezza di mezzi ha caratterizzato e continua a caratterizzare la nostra realtà giudiziaria.
Certo, su questo punto come su altri, a molti di noi è dato di fare poco in maniera diretta.
Ma qualcosa di comunque molto importante la possiamo fare ed è farci sentire perché ne abbiamo il diritto, costituzionalmente tutelato, e perché, se è il futuro del nostro Paese, di noi stessi e di chi ci circonda la cosa che abbiamo veramente a cuore, allora ne abbiamo anche il dovere morale, il quale, fra tutti i doveri, è il più nobile e il più forte.

Alessandro Marchetti

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