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04 maggio 2012
17 maggio 2011
Oggi mi sento un po’ filosofo e voglio proporvi una riflessione che è insieme uno spunto per pensare ai comportamenti nostri e delle persone con cui ogni giorno abbiamo a che fare.
Niente di nuovo sotto il sole e niente che non sia già stato trattato in maniera migliore e più approfondita, ma ne voglio parlare lo stesso.
Cominciamo: ognuno di noi poi decidere di agire razionalmente o irrazionalmente.
Voglio pensare che la maggior parte delle scelte siano compiute usando la testa il che ci porta a (almeno) tre modi di agire razionalmente, tre metodi.
Questi tre metodi sono: 1-la logica, 2-la dialettica, 3-la sofistica.
Se seguiamo la strada della logica, il nostro obiettivo, la nostra “meta” è la verità. Qui, ci interessano i discorsi scientifici, valutiamo le cose sotto il profilo della loro razionalità. È il lume della ragione che ci indica la via da percorrere. Ciò che catalizza il nostro pensiero è la voglia di capire e di sapere per poi, il più delle volte, comunicare quanto si è appreso e concluso.
Se, invece, abbracciamo la dialettica, ci interessa semplicemente avere ragione a prescindere che la si abbia o meno. La possiamo avere questa ragione, e allora le cose dovrebbe essere per noi più facili; ma possiamo anche avere torto e la cosa non ci deve toccare minimamente. Qui non serviamo più la verità, se non eventualmente. Di base c’è un ordine a cui obbedire: “io devo avere ragione o far avere ragione a qualcun altro. Punto”. Lo stimolo a tenere questa condotta sta nel piccolo o grande vantaggio che a me ne deriva e /o nel fatto che ho una persona (capo o cliente) da servire. È tutta una questione molto personale, gli ideali non c’entrano nulla. E se sembro un idealista perché difendo una giusta causa, si tratta appunto di apparenza. La verità è che il mio interesse ad avere ragione ad ogni costo occasionalmente coincide con la difesa o il sostenimento di un ideale.
Infine, se seguiamo il terzo metodo, la sofistica, allora ci poniamo contro la verità. La logica mi dice “a”, io dico “b”; mi dice 2, io dico -1/2. Sposo la falsità e la mia intenzione è quella di distruggere per distruggere, banalmente.
Detto ciò, qual è l’animo che mi permette di intraprendere una piuttosto che l’altra “strada-metodo”?
Nella logica è l’onestà intellettuale. Gli idealisti percorrono questa via. Si tratta di una ricerca infinita perché infinito è il sapere. Queste persone sanno che di imparare non si finisce mai, che si può sempre migliorare, che si può sbagliare (lo spettro dell’errore è costantemente in agguato), che di studiare c’è sempre bisogno, che i dubbi fanno bene e che ci si deve mettere in dubbio.
Nella dialettica, invece, quello che devo fare è obbedire al cliente o al padrone. Il giusto e lo sbagliato sono concetti secondari, non mi interessano; mi interessa avere ragione (meglio: dare l’impressione di avere ragione). È una fredda questione di lavoro, di ruoli e di efficienza.
Nella sofistica, dato che è il contrario della logica, a trionfare è la disonestà intellettuale.
Detto questo, si capisce che a monte di qualsiasi risultato sta un metodo.
Quando si ragiona, non esistono bandiere, slogan e trovate simili. Queste cose meglio lasciarle al tifo sportivo.
Se si ragiona, si deve sposare innanzitutto un metodo che vuol dire servire qualcosa.
Nella logica questo qualcosa è la verità, nella dialettica il cliente e i propri interessi, nella sofistica la menzogna.
A voi la scelta.
Io partecipo
Alessandro Marchetti
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04 gennaio 2010
Il “misuratore pubblico di salute” è un servizio pubblico che ci dice quanto stiamo bene, o quanto stiamo male, e al quale ci sottoponiamo, inconsapevolmente, ogni giorno per mezzo di un qualsiasi mezzo di comunicazione di massa.
Si dice esista da tempi immemorabili ma, dato che il test avviene inconsapevolmente, come s’è detto, nessuno se ne è mai accorto, con la inevitabile conseguenza che nessuno ha potuto capire se sta bene o sta male. Quelli che si accorgono della sua esistenza, vengono presto o tardi (ma una ricerca compiuta in uno Stato con libertà di informazione limitata sembra confermare il primo dato cronologico, cioè “presto” ) fatti tacere. Perché? Perché sono cose che non si fanno, che domande!
A volte, però, non serve far tacere tali scopritori, dato che detta scoperta è una delle più importanti cause di depressione, cosa che provoca perdita di forza, demoralizzazione acuta e sfiducia iperbolica. Insomma, gli scopritori se ne stanno zitti e tristi.
Dunque, ci siamo finora? Qualcosa di quello che ho detto non lo avete capito o vi stupisce?
Non c’è da stupirsi di nulla!
Pensate a questo: lo stesso ““misuratore pubblico di salute” è stato creato inconsapevolmente.
E se non credete a ciò che vi sto dicendo…beh, è normale, ma ve ne darò una prova (…che diffidenti che siete però…).
Nel nostro comune, il servizio “misuratore pubblico di salute” dal più elaborato e ricercato titolo “renditi conto anche tu se stai bene o stai male con il nuovissimo (?) misuratore pubblico di salute, fatto apposta per te e per tutti, che, anche se non ti dico che il misuratore esiste, c’è davvero come i trucchi di prestigio, che ci sono ma non si vedono (ammenoché non guardi bene o te li fai spiegare da chi fa la magia, cosa, quest’ultima, che accade di rado sennò il mago fa la figura…fa una brutta figura)”…ebbene, dicevo, questo servizio esiste ed è funzionante da tempo (a dispetto dei tanti detrattori)!
Ecco le istruzioni per l’uso:
1- leggete l’articolo subito sotto a quello che state leggendo in questo esatto, esattissimo e specifico momento, sul presente blog, dal titolo “è tutta una questione di sale”.
2- dopodichè, leggete questo articolo, a cui il link rimanda (N.B. Se lo avete già letto, rileggetelo. In ogni caso, è sconsigliabile leggerlo più di tre volte in tutto. Se avete scritto il testo dell’articolo in questione, invece, se avete collaborato a scriverlo o lo avete approvato, lasciate stare il presente test, con voi non funziona!)
3- (è il passo più importante, concentratevi!) se, a questo punto, dopo il passo 2 e nonostante il passo 1, vi sentite leggeri, calmi, tranquilli; se vi pare che vada tutto bene, che i problemi non ci siano, anzi che non esistano, che siano solo una stupida invenzione di gente sadica e invidiosa della felicità degli altri; se vi sembra che scivolare sul ghiaccio non è poi la fine del mondo, possono accadere cose peggiori nella vita; se siete d’accordo che spendere 40.000 euro in tre giorni per fare fronte a due nevicate sia cosa di cui andare fieri; se vi sentite soddisfatti, come se qualcuno o qualcosa di indefinito stesse ringraziando anche voi con calore, bontà e appassionato affetto … allora, care signore o cari signori, state male.
In caso contrario, va tutto bene!(…per ora, ma continuate a fare i test in futuro, è più facile star male che bene e non ci si accorge dei peggioramenti).
Grazie dell’attenzione.
Effetti collaterali (li scrivo in piccolo, perché le cose brutte sono brutte e non dovrebbe vederle e leggerle nessuno, come le clausole che richiedono la doppia firma nei contratti): chi sta bene dopo avere eseguito il test si sentirà male. Per rimediare è consigliato un brindisi o una festa…possibilmente in Consiglio comunale!
Buon anno a tutti!
Io partecipo… finché sto bene.
Alessandro Marchetti
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22 dicembre 2009
È tutta una questione di sale
A Natale si è tutti più buoni. Eppure c’è chi riesce a farti arrabbiare lo stesso.
In questi ultimi giorni, nelle nostre zone, abbiamo avuto due nevicate.
Nevicate abbondanti, ma nulla di straordinario e catastrofico, prese in assoluto.
Centimetri di neve, non metri.
Di preoccupante, perciò, non sono state le nevicate in sé, ma il modo in cui, ad Oderzo, la situazione è stata affrontata.
Ora, a me la neve piace, non posso negarlo. L’inverno, l’atmosfera natalizia, il fioccare della neve: c’è poesia in questo.
Ma ci sono, naturalmente, degli aspetti negativi, degli inconvenienti, tra i quali i disagi legati alla viabilità.
Viaggiare su strade innevate o, peggio ancora, ghiacciate non è mai stata la cosa più sicura del mondo, su questo punto credo ci sia poco da discutere.
E, allora, sono almeno due le cose da fare in questi casi: spalare la neve e spargere sale.
Ma guardando le strade di Oderzo, e parlo da automobilista che per lavoro deve muoversi parecchio, mi è sorto un dubbio.
Delle due, l’una: o il sale costa più dell’oro o manca nella testa di qualcuno.
Anche volendo tralasciare le stradine dei quartieri, che erano pure e semplici lastre di ghiaccio come non se ne vedevano da un pezzo, persino le strade principali sono state lasciate a sé stesse.
Chiunque ha preso la macchina così come i coraggiosi che si sono avventurati in una camminata si sono accorti di questo. Persino la piazza era pericolosa da attraversare.
L’impressione che se ne traeva è che i lavori per la messa in sicurezza delle strade o non sono stati fatti o sono stati fatti malissimo.
E non esistono “ma” o “però”: una strada ghiacciata è una strada ghiacciata, punto. Se il concetto non vi sembra chiaro è perché non vi siete fratturati un polso o non siete finiti in un fosso con l’automobile, scivolando su una lastra di ghiaccio.
Detto ciò, e rivolgendomi al Sindaco, che è il primo responsabile della sicurezza dei suoi cittadini, vorrei chiarire che il ghiaccio non si scioglie né con i sorrisi né con le strette di mano, ma organizzando tempestivamente le risorse umane e materiali che gli sono messe a disposizione.
C’è stata una carenza quanto meno organizzativa spaventosa. In questi situazioni si deve essere rapidi ed efficaci nelle scelte e nelle decisioni, non si può stare fermi a guardare cosa succede, sperando nella buona sorte, o far finta che il problema non esista.
L’inverno è appena cominciato e non ve lo devo dire io che altre nevicate sono più che probabili.
A nessuno va rovinato il Natale, perciò che i responsabili della comunità (“resposabili” perché amministrare è appunto una responsabilità, non un privilegio) si procurino del sale per la prossima volta, in tutti i sensi.
Qualunque siano i problemi da affrontare nella vita, è tutta una questione di sale.
Io partecipo
Alessandro Marchetti
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06 ottobre 2009
Come ho già avuto modo di dire, ho la grande fortuna di possedere un mio bosco di circa tremila alberi che si estende su una superficie di un ettaro e mezzo.
Lo abbiamo progettato e piantato la mia famiglia ed io, albero per albero; lo abbiamo curato con molta fatica; lo abbiamo difeso strenuamente (in mezzo ci volevano mettere dei bei pilastri in cemento e ferro e farci passare sopra dei cavi dell’alta tensione, giusto perché non sia mai detto che si possa fare qualcosa per l’ambiente impunemente! Sic!); e ora le piccole piantine che all’inizio si confondevano con l’erba, cosa per la quale ci presero scherzosamente per dei pazzi, sono dei robusti e splendidi alberi di una quindicina d’anni d’età.
Naturalmente, non c’è gioia vera che non sia gioia condivisa.
Così, questo bosco, nel quale sono presenti tutte le specie autoctone, è meta di scolaresche, di esperti e professionisti del settore, nonché di amici e conoscenti che vogliano prendere qualche piantina dal sottobosco per far crescere un albero nel loro giardino (di fatto, il sottobosco è un vivaio) o più semplicemente per fare una passeggiata lungo i sentieri che lo percorrono.
A tutela di questo angolo di verde è intervenuto, inoltre, un provvedimento della regione Veneto che ne ha fatto un fondo sottratto all’attività venatoria, un rifugio per la fauna (ci sono scoiattoli europei, ricci, lepri, fagiani, il picchio rosso, quello verde, per nominare i primi animali che mi vengono in mente e che vedo con più frequenza).
Ovvio, quindi, che sia una zona assolutamente interdetta alla caccia.
Eppure non c’è volta in cui, trovandomi a lavorare o camminare tranquillamente nel mio bosco, non incontri un cacciatore!
L’altro ieri, poi, sembrava di essere in una zona di guerra!
Come è naturale, tutti i cacciatori che ho sorpreso erano con fucile in mano e cane sciolto.
Fossero stati con fucile in spalla e cane al guinzaglio, nulla avrei potuto dire, se non che disapprovo la loro attività (che, peraltro, non saprei definire. Forse attività “sportiva”, come pure si dice? Ma si ammazzano gli animali per “sport”?...).
Ma solo pochi virtuosi hanno il buon gusto di attraversare il mio bosco con l’arma in spalla… e quanto ai cani, la possibilità che li tengano a guinzaglio rasenta l’impossibilità ontologica!
Ora, che sia contrario alla caccia l’ho già detto, in passato, e in termini chiari; come in maniera chiara, ho elencato i motivi per cui sono contrario (alcuni a tutti molto noti, altri meno: ad esempio, l’inquinamento da piombo).
A tutt’oggi è una pratica che non capisco; anzi, la capisco sempre meno.
E illogico, paradossale mi sembra il comportamento di quei cacciatori che prima sono rapiti dai paesaggi e dalle atmosfere che incontrano quando vanno a caccia, perché è impossibile non esserlo, e poi sparano; che è un po’ come rimanere a bocca aperta per lo stupore davanti ad un bellissimo quadro e il momento dopo prendere le forbici e farlo a pezzi.
Mi viene, poi, molta rabbia se penso all’impegno di creare una riserva naturale (e guardate che non è affatto facile! Ve ne parlo per esperienza diretta e, quindi, con perfetta cognizione di causa) e vedere la meraviglia che si è creata deturpata e resa insicura per chi la voglia vivere serenamente, nonché per me stesso.
Allora, i cacciatori quando cacciano fanno qualcosa che non mi vede assolutamente d’accordo, ma che, per ora, non è vietato; anzi è proprio la legge a regolamentare questa attività.
Ciò detto, il minimo che si possa pretendere da loro è, innanzitutto l’uso del buon senso, visto che si deve ammettere che si tratta di un’attività pericolosa, e perciò il rispetto delle persone, della loro vita e integrità fisica.
In secondo luogo, si deve pretendere il rispetto delle regole, delle leggi sulla caccia, cosa che passa attraverso la cultura del rispetto delle regole.
Perciò la sfida che lancio ai cacciatori, se proprio non possono smettere di cacciare, è quella di sapersi attenere alle regole. Non solo: è anche quella di impegnarsi perché tutti i loro colleghi le rispettino.
Poi non si può né negare né tacere che si tratta di una sfida particolarmente difficile visto che il nostro è un Paese in cui ci vogliono far dimenticare che pure la cultura del rispetto delle regole è un valore.
Cogliendo lo spunto per una riflessione più ampia, pensate ai condoni fiscali di cui già abbiamo parlato, all’indulto, al recente scudo fiscale, tutti “provvedimenti premiali”, come vengono definiti tecnicamente… ma premiali di cosa? Della miglior criminalità: questa è la risposta. Una volta i criminali andavano in galera; ora li si ricompensa lautamente.
Non ci si può nascondere alla constatazione che è in moto un circolo vizioso, da anni, per cui cresce la persuasione che delinquere, o comunque non rispettare le regole, paga.
La dissuasione dal tenere un comportamento vietato sta passando dal mondo reale al mondo degli ideali.
E l’idealista la manterrà sempre come valore morale, anche se non dovesse esistere più come regola (non venga mai quel giorno!); lo stesso idealista che in un mondo che non è affatto, e neanche prova ad esserlo, il migliore dei mondi possibili, finisce per fare, spesso e volentieri, la figura del povero allocco.
Ma se, come dicono, il mondo è dei furbi, il progresso, quello vero, lo hanno sempre portato gli idealisti, che non sono degli illusi o degli storicisti, ma persone con una grande riserva di buona volontà.
Io partecipo
Alessandro Marchetti
P.s. Vi invito a leggere anche questo articolo della cantante Mina e a riflettere.
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29 aprile 2009
Viviamo in un periodo storico in cui si fa strada l’idea che chiunque, a prescindere da una preparazione tecnica e dall’abilità, possa scrivere leggi e produrre diritto. E ci si dimentica, così, che non è un caso che il diritto sia stato definito “ars boni et aequi” e che i grandi codici siano stati elaborati da qualificati giuristi e non siano nati affatto dall’oggi al domani, senza delle serie discussioni, protratte anche per anni, alle spalle.
Francesco Carnelutti, uno dei più grandi giuristi italiani di sempre, scriveva nel 1950: “ma ciò che intus alit […] è poi il giudizio, che deve pronunciare e, prima, deve avere, almeno quanto il giudice, il legislatore. […] Quelli che lavorano nell’officina giudiziaria, fra altro, sono, secondo il modo di dire del mercato industriale, operai qualificati; ma nessuna qualifica, in senso tecnico, si richiede per diventare legislatore. Giudice non può essere, ma legislatore sì, uno che non s’intende né di diritto né di giustizia”(grassetto mio).
È noto a tutti il problema della carenza di effettività della pena nel nostro Paese. Problema enorme, perché, di fatto, è una negazione del diritto che produce un circolo vizioso.
Infatti, l’incapacità pratica di dare attuazione a principi e regole giuridiche, oltre a svilire la civiltà di cui esse sono permeate e i valori che intendono tutelare, può addirittura arrivare a porsi quale elemento dalle potenzialità criminogene.
Se la giustizia procede lentamente e in modo inefficiente, si penalizzano gli innocenti e si favoriscono i criminali; la società, sentendosi indifesa, perde la fiducia nello Stato e insieme cresce la convinzione che violare la legge paga (non c’è più dissuasione, ma persuasione che delinquere paga); l’illegalità così aumenta e l’incapacità di affrontarla proporzionalmente si aggrava.
Ed è superfluo dire che il grado di civiltà di un Paese si misura sì sulla base di più indici, ma che tra questi riveste indubbia, e forse preminente, importanza proprio il grado di progresso che connota l’ordinamento penale e processualpenale, data l’estrema e primaria importanza dei valori che esso, da sempre e per sua natura, abbraccia.
Eppure oggi, che dell’illuminismo giuridico si sente molto bisogno (per non dire la riscoperta!), si sta marciando contro l’ideale delle norme poche, chiare, logiche, semplici ed efficaci.
La linee giuridiche del nostro tempo seguono questa triplice direzione: 1- destrutturazione; 2-decodificazione; 3- incapacità tecnico-linguistica.
Con la destrutturazione il sistema giuridico, inteso come meccanismo di coerenza e logica, si sfalda; con la decodificazione si creano delle “brecce” riempite di sotto sistemi normativi autonomi che assecondano una tendenza di “fuga dal codice” e alla dispersione; con l’incapacità tecnico-linguistica la comprensibilità e la conoscibilità delle norme diventano cose sempre più ardue.
Ipertrofia e logorrea legislativa, sciatteria tecnico-giuridica, complessità e vaghezza normativa, incomprensibilità, ambiguità, carattere casistico delle leggi, sono, appunto, tutte parole all’ordine del giorno.
Da ogni parte, presso gli studiosi, si levano voci di denuncia del degrado legislativo raggiunto dal nostro ordinamento.
Gli addetti ai lavori e ogni persona che venga a scontrarsi con tale realtà a causa di un processo a suo carico, è in grado di percepire questo disagio.
Ma non serve essere avvocati, imputati o parti processuali per avvertirlo, essendo più che sufficiente sfogliare qualche pagina di un qualsiasi manuale di diritto degno di questo nome.
È questo il tempo della “libertà di parola”, intesa negativamente come “parola alla libertà” che conduce al degrado legislativo attuale e al pericolo di una svolta verso l’anarchia normativa alla quale ci si deve opporre con forza.
Si sta creando (meglio: ri-creando, visto che storicamente tale situazione non è nuova) l’ambiente naturale degli “azzeccagarbugli” di ogni tempo, amanti della litigiosità, alfieri del “dum pendet rendet” e sacerdoti del “et lis (non lux!) perpetua luceat eis”.
È una giungla legislativa che finisce per abbattersi contro l’individuo e farsi sentire particolarmente in quel ramo del diritto che prima e con più forza degli altri, tocca la sua vita, la sua libertà personale, la sua dignità: il diritto penale e processualpenale.
Scrive Ferrua, uno dei più grandi maestri contemporanei del processo penale: “[…] di qui uno stato di caos interpretativo che, da un lato, accresce la discrezionalità del giudice, spesso in grado di motivare con eguale forza persuasiva opposte soluzioni; ma, dall’altro, lascia sospesa una spada di Damocle sulla sorte del processo, per l’imprevedibile esito che le eccezioni che una difesa vigile e zelante sa tempestivamente articolare. Inevitabile a questo punto la forte accentuazione della variabile sociale – oggi anche etnica – in quanto a sopportare il peso dell’incertezza normativa, senza la contropartita dei vantaggi che le sono connessi, restano solo gli imputati sprovvisti di un’adeguata assistenza legale”.
Qualcuno disse che “non conoscere la propria storia è come non essere mai cresciuti”.
Ebbene, negli ultimi anni in Italia siamo cresciuti davvero poco.
Certezza del diritto, norme chiare, coerenti, precise, poche (Voltaire), brevi, concise, che non contengono “né dettagli inutili né espressioni vaghe né troppo elaborati ragionamenti esplicativi”(Montesquieu), sistematicità, completezza: sono questi i concetti che dobbiamo recuperare.
Ma in quale modo?
Credo che per rispondere a questa domanda si debba ragionare su un “come” e un “dove”.
Mi spiego partendo dal secondo, il “dove”, il quale va identificato in quell’insieme di norme chiamato Codice.
Esso non è semplicemente un luogo in cui vengono raccolte delle regole, ma un luogo con certe caratteristiche. E queste caratteristiche sono appunto la sistematicità, la completezza, la coerenza interna, l’unità di linguaggio, la presenza di norme poche, chiare e brevi. Per contro, non è codice un semplice e banale assemblato di regole, oscure e confuse, ricche di rinvii ad altre norme magari mal raccordabili alle prime, che danno luogo ad aporie e lacune.
È dal caos legislativo che emerge la necessità della codificazione. Così è stato e sempre sarà.
Riporto le parole di Gaspare Falsitta, un giurista di diritto tributario tra i più stimati in Italia: “Codificare significa passare dalla giungla legislativa al sistema legislativo, dal caos della vigna di Renzo ad una vigna ben coltivata e senza erbacce, con le viti disposte in ordinati e ben politi filari. Codificazione e creazione del sistema sono così avvinti da nesso strumentale: si codifica allo scopo di espungere il superfluo e il vano e di creare un testo legislativo fondamentale e stabile, che abbracci le norme di una branca del diritto sistematicamente disposte in un tutto organico”.
Il nostro “dove”, perciò, è il codice, inteso come fondamenta di civiltà, di logicità, coerenza e, in definitiva, di certezza del diritto.
Ma se è questa semplicità e unità linguistica, sistematica, geografica che andiamo cercando, dobbiamo ora capire “come” trovare e raggiungere questo luogo.
E la risposta è il giurista.
Come scrissi qualche tempo fa, un’affermazione di onestà intellettuale si impone: il diritto è, ed è sempre stato, cosa per giuristi.
Nessuno si farebbe aggiustare la macchina da un dottore e curare da un meccanico, come nessuno si farebbe costruire la casa da un avvocato e difendere in giudizio da un muratore per la banale ragione che è il meccanico che sa aggiustare la macchina e il dottore che sa come curarvi, così come è il muratore che sa costruire le case e l’avvocato che sa come difendervi in giudizio.
Lo stesso ragionamento vale per il diritto e il giurista.
Tractent fabrilia fabri, questo è il principio, tanto banale quanto negletto, che guida e anima la nostra riflessione.
La formulazione delle norme (e parlo proprio di “formulazione”, prima ancora che di “contenuto”) deve essere affidata a persone che conoscono l’ordinamento legislativo, che conoscono il “sistema di norme” nel suo complesso e che sono dotati di quelle capacità tecnico-linguistiche che permettono loro di intervenire in quel sistema e di scrivere una legge in maniera chiara, semplice e terminologicamente corretta, secondo l’insegnamento illuministico.
Anche il migliore degli intenti se non è tradotto da un legislatore preparato ed attento in buone norme, creerà problemi.
E vale la pena ricordare che una cosa è l’”idea” che sta alla base di una norma e un’altra è la “norma stessa”, perché solo quest’ultima, in definitiva, è legge e regola la società, per quanto l’”idea” sia indubbiamente utile al fine di interpretarla.
Se il principio sopra enunciato, quindi, non diverrà un punto fermo, continuerà a permanere una confusione nei ruoli e nella legislazione.
È utile riportare le parole di Voltaire: “la giurisprudenza si è tanto perfezionata che non c’è una coutume (norma consuetudinaria francese, n.d.a.) che non abbia parecchi commentatori, e tutti, com’è ovvio, di opinione diversa”. E ancora: “il vostro diritto consuetudinario di Parigi è diversamente interpretato da ventiquattro commentari; dunque è ventiquattro volte provato che è mal concepito”.
Ora, è ovvio che, per quanto ben strutturata e scritta, una disposizione è suscettibile di essere interpretata in più modi; perciò quella di Voltaire è un’affermazione ingenua, di un non giurista. Però, ha un fondo di verità non trascurabile ed anzi ben visibile nei voluminosi libri che riempiono le biblioteche giuridiche. “È il peso della cultura”, dirà qualcuno e forse, per una parte, ha ragione. Ma l’altra parte è il peso dell’incompetenza di un legislatore che genera problemi interpretativi, essendo incapace di essere chiaro e di esprimere in maniera univoca la sua volontà o, peggio ancora, di rendersi conto della reale portata di ciò che, con la sua voce, impone alla società.
Chiarito, quindi, che il nostro “come” va identificato con un esperto di diritto, il giurista, vorrei puntualizzare che lo spirito democratico che mi anima non può che delineare, comunque, una soluzione in cui la centralità circa la produzione legislativa è sempre del Parlamento eletto dal popolo che, come dice la Costituzione, è sovrano (art. 1 Cost.).
Lungi da me, perciò, qualsiasi concezione di elitismo pedagogico e per il semplice motivo che, come sempre la storia ci insegna, da lì al paternalismo, o addirittura all’autoritarismo, il passo è terribilmente breve.
Il punto, allora, diventa ridefinire il “principio di legalità”, nel senso, appunto, di affiancare a chi decide le leggi, in quanto eletto dai cittadini, coloro che sanno scriverle e sanno indicare proposte, osservazioni e critiche tecnicamente qualificate.
Ora, se, come ammonito sopra, dobbiamo stare attenti a non dare troppo potere al giurista al fine di scongiurare il pericolo consistente nel farne un legislatore, non dobbiamo nemmeno attribuirne troppo poco, con la conseguenza di svilirne il ruolo.
E perché i tecnici del diritto, o meglio, i migliori tra di essi, possano assumere un peso reale, a mio parere è necessario passare attraverso l’istituzione di un nuovo organo costituzionale, che potrebbe chiamarsi “Consiglio dei giuristi”.
Tale organo collegiale dovrebbe avere poteri esercitabili su richiesta del Parlamento o d’ufficio, consistenti nell’emettere pareri tecnici e proposte di legge, ed essere eletto dai professori universitari delle facoltà di diritto.
Per questa via, riteniamo che si possa realizzare un produttivo gioco di pesi e contrappesi tra potere legislativo e potere dei giuristi all’insegna di una più seria produzione normativa che come beneficiari primi ha i cittadini.
Il Consiglio dei giuristi, come strutturato nella presente proposta, non avrebbe, e coerentemente, un potere decisionale, però bilancerebbe, con il suo apporto, il potere del Parlamento sicuramente da un punto di vista tecnico ma anche, data la sua autorevolezza, dal punto di vista del peso delle scelte fatte dal legislatore sull’opinione pubblica.
Detto questo sotto un profilo tecnico, concludo con una considerazione di ordine pratico e cioè che non si può non tener conto del fatto che ogni norma va immersa in una società, fatta di persone le quali avranno il compito di metterla in pratica.
E perché questo avvenga senza problemi, ci vogliono una certa mentalità e le necessarie risorse umane e materiali.
La migliore delle norme possibili non produrrà mai gli effetti sperati se non è anche introdotta in un mondo che è il migliore dei mondi possibili o, quantomeno, che a questo assomigli.
Diceva Calamandrei: “una nuova legge processuale, anche se rappresenta il non plus ultra della perfezione scientifica, non ha come necessaria conseguenza il miglioramento della giustizia, se non fa i conti colle possibilità pratiche della società nella quale deve operare”.
Innanzitutto, quindi, deve essere dato interiorizzato da tutti, specie da chi giudica, che la ricerca della verità, secondo il metodo che più ragionevolmente conduce ad essa, è lo scopo del processo.
A guidare la mente di legislatori, giuristi e giudici deve essere la logica e l’onestà intellettuale.
“Amicus Plato, magis amica veritas”.
E non deve poi sfuggire che ogni azione, per quanto guidata dalla stessa regola, può essere compiuta in modi e con atteggiamenti diversi.
Si scriveva giustamente che “accade spesso che le garanzie del cittadino siano più apparenti che reali, tanto che si deve ritenere presidio della libertà personale più il costume civile degli organi di polizia che non le vere e proprie regole giuridiche”(Pisapia).
Accanto a ciò, va poi considerato che senza risorse materiali non è possibile fare nulla.
Un sistema giudiziario senza investimenti non sarà mai in grado di funzionare in maniera efficiente ed anche questo contribuirà a aumentare il circolo vizioso di cui si parlava all’inizio.
Purtroppo, sappiamo che la scarsezza di mezzi ha caratterizzato e continua a caratterizzare la nostra realtà giudiziaria.
Certo, su questo punto come su altri, a molti di noi è dato di fare poco in maniera diretta.
Ma qualcosa di comunque molto importante la possiamo fare ed è farci sentire perché ne abbiamo il diritto, costituzionalmente tutelato, e perché, se è il futuro del nostro Paese, di noi stessi e di chi ci circonda la cosa che abbiamo veramente a cuore, allora ne abbiamo anche il dovere morale, il quale, fra tutti i doveri, è il più nobile e il più forte.
Alessandro Marchetti
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17 aprile 2009
Scarica e stampa il file pdf “ODERZO PARTECIPA numero 22” collegandoti all’indirizzo www.oderzopartecipa.it/carta
“...da queste parti la partecipazione è spesso appesa al filo di una (contro)informazione...”
Io partecipo
Alessandro Marchetti
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Scarica e stampa il file pdf “ODERZO PARTECIPA numero 21” collegandoti all’indirizzo www.oderzopartecipa.it/carta
“...da queste parti la partecipazione è spesso appesa al filo di una (contro)informazione...”
Io partecipo
Alessandro Marchetti
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10 marzo 2009
Domanda: le opinioni hanno tutte la stessa dignità? No.
So di essere provocatorio nel dire questo e a qualcuno potranno esserglisi già drizzati i capelli, ma l’importante è intendersi.
E allora intendiamoci.
Come un po’ in tutte le cose, gli estremi sono sempre riconoscibili e ciò vale anche per le opinioni. Così, se qualcuno dicesse “evviva la schiavitù” o “evviva la guerra”, le sue sarebbero affermazioni a dir poco incommentabili e non potrebbero mai essere oggi condivise.
Se qualcuno, invece, dicesse “evviva i diritti umani” o “evviva la dignità della persona”, meriterebbe sicuramente il plauso di tutti perché è questa la strada della civiltà e del rispetto reciproco.
Ma se gli opposti sono appunto facilmente riconoscibili, è nelle ipotesi che stanno tra di essi che si fa più fatica a muoversi perché la verità non si è ancora affermata come pacifica.
E ciò vale per le piccole questioni pratiche di tutti i giorni, come, e a maggior ragione, per le grandi questioni.
Vi faccio un esempio. Ultimamente sto studiando l’opportunità di istituire un contraddittorio anticipato, cioè un confronto tra le parti processuali anticipato rispetto all’adozione di taluni provvedimenti come la carcerazione preventiva. Su questo punto molte sono le considerazioni da compiere in particolare, se si volesse adottare questa soluzione, sul procedimento da seguire e sui problemi pratici, per nulla facili da risolvere, che porta con sé.
Detto questo, bisogna inoltre considerare che un’opinione seria e qualificata può arrivare soprattutto da chi di una certa materia è esperto.
Tractent fabrilia fabri, dicevo qualche tempo fa: “siano i fabbri a maneggiare gli attrezzi del loro mestiere”.
Perciò con maggior attenzione si dovranno ascoltare coloro che hanno esperienza e competenza in relazione ad un certo argomento e alle relative problematiche.
Se, per esempio, mi mettessi a parlare di una dibattuta questione di medicina, materia di cui so poco o niente, forse potrei direi qualcosa di intelligente (un po’ di buon senso dovrebbero averlo tutti); ma è molto più probabile che dalla mia bocca escano sciocchezze.
Così come un medico, che su quella questione potrebbe dire cose brillanti, interrogato su un argomento di diritto, magari quel contraddittorio anticipato di cui parlavo prima, potrebbe non cavarsela altrettanto bene.
Ma bisogna, poi, stare attenti (attentissimi!) ad un'altra cosa. Bisogna poter apprezzare l’onestà intellettuale della persona che parla e l’assenza di interessi diversi dalla ricerca della verità nel suo ragionare.
E questo vale sopratutto se la questione è molto tecnica e a parlare è un esperto perché, data la difficoltà degli argomenti e l’abilità del relatore, è difficile contraddirlo e nei suoi confronti un po’ di fiducia bisogna averla.
E la fiducia è una cosa preziosa e un bene raro. Si fatica moltissimo per guadagnarla e basta pochissimo per perderla.
Capite, quindi, che l’insidia di soldati e soldatini di interessi e privilegi personali si fa in questi casi tremenda.
Certo, poi, che tutti posso sbagliare. Ma ribadisco che errare è umano, perseverare o, peggio ancora, sapere di sbagliare fin dall’inizio, è diabolico.
Detto tutto questo, bisogna forse concludere che la libertà di manifestazione del pensiero va limitata? Assolutamente no!
Vale, oggi e sempre, quanto diceva Voltaire: “Non sono d’accordo con te, ma darei la vita perché tu possa dirlo”.
Il punto è allora sapere affrontare le tante opinioni che arrivano alle nostre orecchie e vagliarne attentamente l’attendibilità.
Le opinioni, perciò, non hanno tra loro lo stesso valore e vanno considerate cum grano salis.
Alessandro Marchetti
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04 febbraio 2009
Il Sindaco Dalla Libera non smette mai di stupirmi, lo dico con sincerità.
Quando penso che abbia il buon senso e il buon gusto di starsene zitto (perché gli converrebbe!), lui cosa fa? Naturalmente, parla!
Gli voglio bene per questo, perché se ci fossero giornalisti veri, da combattimento, lo massacrerebbero di articoli ogni giorno.
In attesa che arrivino giornalisti così, ci penso un po’ io, nei limiti del tempo e delle possibilità.
Vi riporto questo link che vi collegherà al sito del Comune di Oderzo, in particolare ad un freschissimo intervento di Dalla Libera a proposito delle dimissioni del Consigliere Martin.
La sintassi non è sempre strabiliante, ma il contenuto del discorso si coglie comunque.
L’apice, in ogni caso, è alla fine: ragazzi, mi sta rubando il motto!
Io partecipo
Alessandro Marchetti
P.s. 1 Non scrivo altre parole di replica all’intervento del Sindaco perché non ha senso: chi vuole capire, ha capito da un pezzo. Per chi invece ancora non sapesse, consiglio di leggere l’articolo precedente a questo, “Martin dà le dimissioni”, e seguire i link presenti nel testo che vi collegheranno ad altri articoli i quali vi permetteranno di approfondire gli argomenti a cui ci si riferisce.
P.s. 2 … E questi gli ordini del giorno del Consiglio comunale di Oderzo del 9/2/09: clicca qui.
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01 febbraio 2009
Voglio riportare questa notizia apparsa ieri sui quotidiani locali sia per fare un plauso all’attività politica che il consigliere Martin ha fino ad ora svolto (e spero vivamente che, pur non sedendo più nei banchi del Consiglio comunale, il suo impegno politico non si fermi qui) sia per svolgere alcune riflessioni sull’attuale situazione politica di Oderzo.
La notizia alla quale mi riferisco è, appunto, che il capogruppo del PD, Sandro Martin, che ha guidato ed animato la sinistra opitergina in questi ultimi quindici anni, ha deciso di rassegnare le dimissioni e di lasciare il Consiglio comunale.
Innanzitutto, perché questa scelta?
Il titolo dell’articolo che si legge ne Il Gazzettino del 31/1/09, cioè “Il capogruppo del Pd: «Dopo 15 anni è giusto lasciare»”, è fuorviante per il fatto di focalizzare solamente una delle ragioni che hanno portato Martin a compiere questa scelta.
Infatti, è vero che il consigliere ha dichiarato: “Mi dispiace ma dopo 15 anni è giusto lasciare. Altrimenti si finisce sempre per additare gli altri, dire che bisogna lasciar spazio e non si guarda a se stessi”. E di questo gli va dato onore, dato che una simile scelta di “lasciar spazio” anche ad altre persone, perché queste abbiano l’opportunità di partecipare alla vita politica della propria città o del proprio Paese, in Italia è ancora rimessa alla moralità e al buon gusto di chi è politicamente inserito. Ahimé, siamo abituati fin troppo ai “politici di professione” (molti dei quali sono tali a prescindere dai meriti e dalle capacità tecniche e professionali).
È vero, inoltre, che sulla decisione di Martin pesano impegni lavorativi sempre più assorbenti. E pure in questo, lo capisco perfettamente. Dopotutto, non di solo pane vive l’uomo, certo, ma il pane ci vuole comunque.
Ma, oltre a queste ragioni, è altrettanto vero che, riportando la dichiarazione del consigliere, “è venuto meno un certo entusiasmo. Con il sindaco Giuseppe Covre ed Elio Pujatti, che pure erano su posizioni ben distanti dalle mie, l'azione politica è sempre stata stimolante, a volte davvero intensa. Ora non è più così”.
Già, ora non è più così e credo che sia proprio questo il punto sul quale riflettere: non c’è più l’entusiasmo e il clima costruttivo di una volta.
Prima, in Consiglio, si combatteva per migliorare la città e il benessere dei cittadini. Ed era una lotta, ben s’intenda, puramente dialettica, la quale è indice della migliore democrazia e del sincero e appassionato impegno dei nostri “rappresentanti-dipendenti” che siedono nella sala nel Municipio.
Ora, invece, sembra aleggi una certa delusione e demotivazione.
La si avverte nelle parole di Martin, ma non solo.
Qualche tempo fa, questa mancanza di sintonia e considerazione fece dimettere pure l’allora Presidente del gruppo comunale di Protezione Civile, che gran parte dei volontari poi seguirono in questa scelta. Ne ho parlato molto di questo e, prima che vengano richiamate per l’ennesima volta questioni politiche totalmente inesistenti, vi invito a leggere la cronistoria di quel fatto.
Non voglio immaginare, poi, la frustrazione che devono aver provato i residenti di via Ronche di Piavon per la famosa storia dei rallentatori da loro richiesti per banali ragioni di sicurezza e dal Sindaco prontamente… rimossi. La motivazione della scelta di toglierli fu che “i rallentatori [sono] troppo pericolosi”(v. Gazzettino 18/8/06) corredata da alcuni racconti fantozziani che Dalla Libera pensava potessero essere, non so in quale modo, persuasivi su anziani che in bicicletta dovevano affrontare i dossi, come se non esistessero le estremità smussate o comunque modi intelligenti di costruire i rallentatori e dimenticandosi del perché erano stati messi lì. Anche di questo se n’è parlato (ed anche Martin era intervenuto a proposito: v. Gazzettino 8/8/06), se non altro perché in seguito, nonostante la promessa poco realistica di severi controlli permanenti da parte dei vigili, si verificarono degli incidenti . Allora si era ad inizio mandato e, come dicono, “chi ben comincia… ”.
Oltre a ciò, posso capire che partecipare ai Consigli comunali come consigliere combattivo e propositivo e poi veder trasformarsi queste occasioni di crescita della città in Consigli-spot con medaglie, medagliette, premiazioni e brindisi, peraltro difesi a spada tratta da Amministrazione e gruppi di maggioranza, non solo toglie entusiasmo, ma spinge anche alla rassegnazione.
Naturalmente, c’hanno provato anche con me a demotivarmi, pur senza grandi risultati, come potete notare. Memorabile resta la lettera che i due gruppi di maggioranza, “Cittadini Uniti” e “Oderzo Sicura” , mi mandarono, anche se poi nessuno con cui parlai volle riconoscerla. A parte chi finse di non saperne nulla, e nonostante fosse finita sui giornali uno o due giorni dopo che arrivò a me e, in seguito, se ne fosse parlato non poco, l’unico che successivamente si sia espresso sul punto è il Sindaco Dalla Libera, il quale giudicò quella lettera tutto sommato simpatica.
La simpatia del mal di pancia, mi sia permesso di commentare.
L’attacco che mi giunse allora fu puramente personale, dato che non replicava nemmeno ad una delle critiche di sostanza che avevo mosso. Peraltro, fu un attacco subdolo per il fatto che, indirettamente, più che colpire me volevano colpire mio padre che era stato precedentemente amministratore, cosa che non ho mai nascosto, visto che, io, le cose che scrivo le firmo sempre con nome e cognome e me ne prendo la responsabilità.
A questo punto, voglio ricordare che il solo personaggio politico che in quella occasione intervenne pubblicamente in mia difesa fu proprio il consigliere Sandro Martin.
Vi riporto il suo intervento perché ne vale la pena. Quella volta difese me, appunto, ma poteva aver difeso chiunque fosse stato nella mia situazione. Estrapolate il discorso dal caso concreto e concentratevi sulla morale che espresse, vi darà un’idea della persona che il panorama politico della nostra città ha perso.
“Ritengo questo blog un valore tanto più che Alessandro l’ha messo a disposizione della città. Stigmatizzo nel modo più assoluto la lettera che i gruppi di maggioranza hanno inviato a Marchetti e che egli ha pubblicato nel blog, dimostrando maturità. La critica è uno strumento democratico, tanto più che Alessandro Marchetti attraverso il blog ha segnalato delle cose da sistemare, senza fare riferimenti personali. Trovo che l’attacco personale fatto a questo giovane dai due gruppi di maggioranza, tirando in ballo il fatto che egli sia figlio di un ex assessore, sia prima di tutto una caduta di stile. In secondo luogo è un avvelenare la politica. Alessandro ha tutta la mia solidarietà e così l’avranno sempre coloro che subiranno degli attacchi personali. Insomma se inviano lettera di tale genere per delle critiche circa la segnaletica stradale espresse su un blog, cosa succederà quando la maggioranza sarà chiamata a prendere decisioni dure, anche impopolari?” (Gazzettino, 4/11/06).
Dico con sincerità che mi dispiace che Martin abbia dato le dimissioni. Non posso sapere se, fossi stato al suo posto, avrei compiuto la stessa scelta. Dopotutto io non ho vissuto quella che ha vissuto lui in questi anni di attività politica.
Però, credo che la sua decisione sia comprensibile.
L’articolo sopra citato di ieri del Gazzettino, alla fine, commenta: “nessun patema”. Questo perché al posto di Martin subentrerà Sandro Campigotto. Certo, faccio gli auguri di buon lavoro al nuovo consigliere, Campigotto, però il patema c’è tutto, altro che no.
Se questo è il clima politico che si respira oggi ad Oderzo e se Martin lascia la carica dopo quindici anni di attività, non si può dire, come spesso piace fare a Dalla Libera, che non c’è nessun problema.
I problemi ci sono eccome.
Ad ogni modo, spero che le dimissioni di Martin non significhino anche l’abbandono del suo impegno civico, data la sua preziosa memoria storica e la sua esperienza, e mi auguro che continui a partecipare, proprio ora che ce n’è più bisogno, alla vita della città.
Io partecipo
Alessandro Marchetti
Etichette: Politica locale
21 novembre 2008
Ho sempre creduto che una delle cose più importanti in una persona sia la sua onestà intellettuale. Nessuno dice che un’idea deve essere giusta e un’altra idea deve essere sbagliata. Se così fosse ci troveremo di fronte ad una dittatura. Ma per fortuna oggi non è così.
Viviamo, dopo terribili esperienze passate, in un Paese che fa della democrazia e della libertà di manifestazione del pensiero dei valori imprescindibili.
E tali valori a questo servono: a dare la possibilità del dialogo, del confronto, della crescita; a guardare le cose da tanti punti di vista diversi, considerandone i pregi e i difetti; a criticare ciò che non funziona e a proporre nuove soluzioni.
Come ho già avuto occasione di dire, “in un paese la democrazia si vede dalla presenza di voci discordanti e opposte, e la sua civiltà nasce dalla dialettica e dal confronto”.
La libertà, quindi, si pone come valore che innesca un circolo virtuoso che ci permette di crescere e progredire.
Ma tutto questo può avvenire se della libertà si fa un buon uso, se si sfruttano appieno le sue potenzialità e la sua bellezza.
La qual cosa non si traduce assolutamente, conviene ripeterlo, nel doversi conformare necessariamente a questo o quel pensiero, che è ciò che avviene in un clima di intolleranza e dittatura.
Il punto della questione è che la libertà la si può usare in tanti modi e, paradossalmente, la si può usare anche per “non essere liberi”, che equivale a non usarla affatto.
Una qualsiasi questione può essere, infatti, affrontata con serietà, riflettendoci sopra, ragionando guidati dalla logica, considerando i valori, le tradizioni e le esigenze di una comunità.
Oppure si può decidere di non ragionare, di seguire acriticamente l’ordine di idee impartito da una persona o da un interesse personale, e di obbedire da buoni soldatini.
Se si agisce in questo secondo modo, la democrazia diventa allora una parola svuotata del suo significato e viene persa irrimediabilmente una occasione di crescita, con il rischio di instaurare un circolo tutt’altro che virtuoso, bensì pericolosamente vizioso.
Senza onestà intellettuale si diventa schiavi di qualcuno o qualcosa. Senza onestà intellettuale non si è liberi.
È poi certo che, anche se si ragiona secondo logica, seguendo sincere convinzioni, si può comunque giungere malauguratamente ad un risultato sbagliato.
Ma è anche qui che si vede la grandezza e l’onestà intellettuale di una persona, la quale sa riconoscere i suoi sbagli e si impegna per rimediarvi.
Perchè errare è umano, perseverare o, peggio ancora, sapere di sbagliare fin dall’inizio, è diabolico.
L’esperienza dei tempi passati, nonché quella nostra di tutti i giorni, ci insegna, inoltre, che ricercare la verità non è una cosa facile, ma richiede molti sacrifici, spirito di abnegazione e pazienza.
Senza dimenticare che qualsiasi cosa ognuno di noi faccia, anche nel migliore dei modi e con le migliori intenzioni, si creerà sempre dei nemici.
È tristemente vero quanto si disse:”veritas odium parit”(la verità attira l’odio).
Voglio, in conclusione, riportarvi le parole di uno degli “spiriti liberi” più grandi e immeritatamente meno ricordati, del nostro Paese; un giornalista e scrittore che ammiro e che avrebbe potuto dire sempre e con fierezza “amicus Plato, magis amica veritas”(Platone è mio amico, ma mi è più amica la verità), Giovannino Guareschi:
“[…]molta gente, e per molto tempo, ci classificava tra i qualunquisti. Noi non apparteniamo a nessun ismo. Abbiamo un’idea, sì, ma non finisce in ismo. La cosa è molto semplice: per noi esistono al mondo due idee in lotta, l’idea cristiana e l’idea anticristiana. Noi siamo per l’idea cristiana e siamo perciò con tutti coloro che la perseguono e soltanto fino a quando la perseguono.[…]Siamo contro ogni forma di violenza[…]La nostra strada è dritta e su di essa camminiamo tranquilli. Alla fine, magari, ci troveremo con sei lettori in tutto.”(Giovannino Guareschi, Candido del 7 dicembre 1947)
Alessandro Marchetti
Etichette: Riflessioni all'etere
29 luglio 2008
Dopo un anno e mezzo di blog, avendo pubblicato un discreto numero di articoli, tanto miei quanto di altre persone che hanno gentilmente collaborato per arricchire di contenuti questo innovativo luogo di discussione, mi è sembrato giusto selezionare i pezzi più interessanti e riunirli in una raccolta.
Da questa idea ne è nato un libro che ho voluto intitolare “Pensieri riflessi”.
I molti “perché” legati a questo libro li ho raccontati nella prefazione che ho riportato sotto e che vi invito a leggere.
Questo libro non è in vendita, ma è scaricabile gratuitamente cliccando qui o nella sezione “il blog sulla carta” e, come gli articoli fin qui pubblicati, è protetto dalla licenza Creative Commons che permette di far circolare le idee con molta libertà. Perciò potete tranquillamente stamparlo, farne copie, inviarlo ai vostri amici.
Ovviamente il mio consiglio è di scaricarlo e sfogliarlo sia perché spero che quanto vi è scritto possa farvi pensare e anche un po’ divertire; sia perché troverete all’interno una serie di illustrazioni, a partire dalla copertina, davvero irresistibili, realizzate gentilmente dalla mia amica vignettista Alberta Tessarolo, che impreziosiscono varie pagine del libro.
Non una semplice raccolta, quindi, questo “Pensieri riflessi” ma anche qualcosa di più che mi auguro apprezzerete.
Ringrazio coloro che con me hanno lavorato e che hanno sostenuto questa iniziativa
A voi tutti una buona lettura!
Prefazione
È passato circa un anno e mezzo da quando ho intrapreso l’avventura de “la gioventù che partecipa” e del relativo blog oderzopartecipa.it, e sono contento ed insieme sorpreso di vedere che il volume degli articoli scritti finora non è poi così ridotto, tutt’altro.
Ricordo bene che all’inizio c’era in me molto entusiasmo, tanta voglia di comunicare delle idee, di seguire certi principi. C’era una meta, insomma, e il desiderio di raggiungerla, ma non sapevo quale percorso avrei compiuto, in cosa mi sarei imbattuto lungo questa strada, quanto distante sarei riuscito ad andare.
Ma, e come è ho detto la cosa mi rende molto felice e piacevolmente sorpreso, di cose ne sono state scritte, sono stati offerti parecchi spunti di riflessione che talora hanno anche dato vita a varie discussioni e nuove riflessioni sia all’interno che, e soprattutto, fuori dal blog.
E ciò a conferma che è assolutamente vero che “la partecipazione stimola la discussione, favorisce il passaggio di conoscenze e informazioni”, che “la nostra preziosa libertà ha un senso, se la si usa”, che libertà, per usare le parole di Giorgio Gaber, è partecipazione.
Ora, lungi dal prendermi tutto il merito di questa positiva iniziativa e, nel suo piccolo, della sua riuscita, va detto che molto di quello che è stato scritto e fatto si deve alla gentilezza e alla disponibilità delle molte persone che hanno collaborato con dedizione lungo questo arco di tempo.
E vale la pena sottolineare che tutti gli articoli che leggerete sono stati realizzati gratia et amore Dei, per il semplice piacere di comunicare dei pensieri e delle conoscenze. Tutti coloro che hanno contribuito con i loro scritti lo hanno fatto guidati da una passione sincera ed autentica ed anche dal dovere morale, che è il più forte di tutti i doveri, di dire cose che sentivano di dover trasmettere agli altri.
Ecco, credo che questo sia davvero un punto importante. Alla domanda “perché io e coloro che con me hanno lavorato, abbiamo scritto quello che è contenuto in questo libro” come potremmo rispondere? Forse perché avevamo l’obbligo, che non fosse appunto morale, di dire certe cose, magari in un certo modo e magari ancora di nasconderne altre? Forse perché dovevamo accontentare questa o quest’altra persona? Forse perché questo ce lo aveva domandato qualcuno o, peggio ancora, ordinato?
Se abbiamo scritto qualcosa è semplicemente perché ci abbiamo sinceramente creduto o perché abbiamo determinate esperienze o competenze che ci hanno permesso di parlare con una certa cognizione di causa. E se ci fosse artificiosità nelle nostre parole, lo si avvertirebbe perché avremmo di certo commesso qualche “errore” quale un eccesso di servilismo, una lode sperticata quantomeno inopportuna, una critica immotivata. Senza fare gli “avvocatini” di nessuno e senza nemmeno degenerare in un qualunquismo di qualsiasi sorta, abbiamo sempre cercato di ragionare e motivare le nostre convinzioni, ben sapendo che “la fiducia è una cosa preziosa” che “si fatica moltissimo per guadagnarla e basta pochissimo per perderla” e che per questo “è un bene raro”.
A voi, poi, il compito di giudicare.
Ciò detto, va subito chiarito che in questo libro non troverete “verità assolute”, e non potrebbe che essere così.
Una cosa sono il metodo e le intenzioni, altra cosa i risultati a cui si perviene. E se è ben vero che ho sempre cercato di motivare con cura le mie posizioni, sono altrettanto cosciente che si tratta in ogni caso di opinioni, per ciò stesse condivisibili, criticabili, rivedibili e integrabili.
Qualche tempo fa mi scrisse una classe delle scuole medie per comunicarmi le riflessioni che erano state svolte in aula dopo la visione di un film che avevo consigliato, Super-size me di Morgan Spurlock, che riguarda l’alimentazione e le tecniche di marketing.
A questi ragazzi, dopo aver parlato delle potenzialità dei blog e dei siti internet nell’ambito dell’informazione e fermo restando che, lo aggiungo adesso, questi rimangono pur sempre strumenti che vanno riempiti di un buon contenuto essendo comunque questa la cosa più importante, scrissi le parole che seguono: “Il mio obbiettivo quando ho iniziato a scrivere e pubblicare i miei articoli, che nel gergo del blog si chiamano “post”, era proprio quello di offrire dei temi su quali poter discutere e confrontarsi così che ognuno, io per primo, potesse formarsi un’idea.
Ovviamente non ho mai la presunzione che quello che dico sia la verità assoluta e indubitabile. Ricordatevi che ognuno esprime delle opinioni, dei modi di pensare su una cosa secondo punti di vista diversi, che possono essere condivisi, o anche criticati, oppure ancora sviluppati. Ed è proprio la discussione, che presuppone il rispetto reciproco circa le idee di ciascuno, che ci fa capire quali sono i pregi e i difetti di ciascuna opinione e che ci guida verso la strada del miglioramento e del progresso.”
E dopotutto,“in un paese la democrazia si vede dalla presenza di voci discordanti e opposte, e la sua civiltà nasce dalla dialettica e dal confronto”.
Come per tutte le cose, quindi, ci vuole certo una solida e ragionata convinzione ma anche una buona dose di umiltà e consapevolezza dei proprio limiti.
Alcuni, poi, mi chiedono se questo genere di attività servano davvero, se non siano solo una perdita di tempo, qualcosa che non porta a risultati tangibili, di sostanzialmente inutile, troppo da “idealisti”.
In proposito, allora, riporto quanto scrissi ad un giornale in risposta ad un articolo che mi riguardava: “Quanto a coloro che mi chiedono se queste iniziative siano davvero utili, la mia profonda convinzione è che basta che anche una sola persona sia arricchita o semplicemente indotta a riflettere su ciò che dico perché io mi possa ritenere soddisfatto.
E certo mi fa piacere vedere che di tanto in tanto le mie riflessioni vengono pubblicate sui giornali locali e che taluni problemi sui quali ho puntato la mia attenzione siano stati presi in debita considerazione e talvolta anche risolti”.
Giunti a questo punto, possiamo finalmente parlare del titolo di questo libro che costituisce una raccolta degli articoli più significativi pubblicati in un anno di blog.
Perché, dunque, “Pensieri riflessi”?
Innanzitutto perché sono i miei pensieri personali, pensieri che si riflettono nel mare magno delle idee, delle opinioni delle persone, un mare che bagna le sponde della civiltà e della conoscenza.
E più questo mare diventa grande, più ciò significa aver colto il vero spirito democratico. Più ognuno di noi usa intelligentemente la libertà di cui gode, più contribuisce a far crescere sé stesso e gli altri.
A questo grande mare ho cercato, con l’aiuto di molte valide persone, discutendo, ricercando, pensando e riflettendo quanto più era possibile, di dare un mio piccolo contributo, di aggiungere delle piccole gocce.
E come l’immagine di ogni goccia di acqua arriva ad ognuno con una riflesso diverso, allo stesso modo ciò accade con il pensiero. Ogni pensiero riflesso su questo mare arriva a ognuno con una luce diversa. E a questa luce corrisponde il punto di vista di ciascuno, la sua sensibilità e la sua originalità che porta a condividere, criticare e arricchire quello che io e, in generale, ognuno di noi dice.
Ogni goccia, ogni idea, ogni opinione crea degli spunti di riflessione, crea curiosità, desiderio di sapere, conoscere e, se ho ben lavorato, tutto ciò genera un magnifico circolo virtuoso che fa appunto crescere ciascuno di noi.
Inoltre, ciò che ho scritto è stato pubblicato in un blog e in internet si “naviga”. Perciò i miei sono pensieri riflessi anche in questo altro mare perché possano essere, in modo facile, visibili a tutti.
Ora, siccome fino a questo punto sono stato sincero, continuerò ad esserlo dicendovi che, esattamente come non sapevo cosa sarebbe successo quando ho iniziato a scrivere sul blog, allo stesso modo non so cosa succederà da qui in poi.
Finora sono stato sostenuto e ho fatto un “lavoro” (non facile se svolto bene, quanto per vari versi ingrato, quale è quello di studente) che comunque lascia una certa libertà di orari e organizzazione. Ma la cosa, purtroppo e insieme per fortuna, non durerà a lungo.
Senza contare che mi rendo sempre più conto che la frase “libertà vuol dire partecipazione” può assumere un significato anche più ampio e in qualche modo “armonico” rispetto a quello che comunemente le si attribuisce.
Partecipare non vuol dire solo informare, essere impegnati civilmente, ma vuol anche dire dedicarsi all’arte, alla ricerca e a tutte quelle cose che sviluppano ciò che mi piace chiamare la “parte angelica” degli uomini, quelle per cui ci sarebbe solo progresso e non esisterebbero più né torti né sopraffazioni.
Ecco, voglio impegnarmi ad essere libero anche in questo senso. Voglio continuare a riflettere e, per quanto mi è possibile, far riflettere, ma anche divertire e creare.
In conclusione, nell’augurarvi una buona lettura, vi lascio con le battute finali di un film, Pleasantville, che letteralmente amo e che è un invito alla libertà di esprimersi e sperimentare in tutti i campi della vita e insieme un atto d’amore verso la tolleranza, il reciproco rispetto e l’arte:
“E adesso che succederà?” chiede George alla moglie, Betty, mentre la storia raccontata sta per finire.
“Non lo so. …Tu lo sai che cosa succederà?”.
“No, non lo so!” le risponde lui, con un’espressione di gioia sul volto.
Betty allora, sorridendo, volge lo sguardo verso il loro amico, Bill.
Lui la guarda, sorride anch’egli e dice: “Non lo so neanche io…”.
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02 aprile 2008
Succedono cose strane in Italia.
Potrà forse suonare qualunquista, ma non è una novità.
Cosa sta succedendo lo capiranno davvero bene tra cent’anni gli studiosi di storia che analizzeranno questo periodo, e coloro che leggeranno i loro libri.
Ma c’è più di qualcuno che la stranezza di questo momento la vede bene anche oggi e che, testardo lui, cerca di capirci qualcosa.
Vi invito, perciò, a leggere questo editoriale apparso oggi sul Corriere della sera di Giovanni Sartori.
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13 marzo 2008
Povera Italia, povera Italia!
Ormai è diventato un Paese di Pulcinella a tutti gli effetti. E non sia mai detto che ce l’ho contro il mio Paese, come potrei avercela?
Un Paese non è una persona, un Paese ha l’aspetto che gli hanno dato coloro che l’hanno governata. Allora, di chi è la colpa? Della Destra? Della Sinistra?
Forse così il problema è mal posto. Aveva ragione Gaber quando diceva “ma cos’è la Destra? Cos’è la Sinistra?”.
Inutile, perciò, prendersela con dei “contenitori”. Il problema è forse di contenuto. Meglio: di mancanza di contenuto.
Vi invito a leggere questo editoriale di Giovanni Sartori pubblicato oggi sul Corriere della sera.
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